Dopo quella volta, Frédéric intensificò le visite. Prometteva al cocchiere grosse mance; spesso però, spazientito dalla lentezza del cavallo, smontava, per poi arrampicarsi senza fiato su un omnibus: con quanta sdegnosa compassione esaminava allora le facce delle persone che gli sedevano di fronte, e che non andavano da lei!

Riconosceva la casa da lontano da un enorme caprifoglio che ricopriva su un solo lato la travatura del tetto: era una specie di chalet svizzero dipinto di rosso, con un balcone sul davanti. Nel giardino c'erano tre vecchi ippocastani, e nel mezzo, su un rialzo del terreno, un ombrellone di paglia retto da un tronco d'albero. Sotto le tegole del muro di cinta, una vite lussureggiante, legata male, pendeva a festoni come un canapo marcio. La campana del cancello, un po' dura da tirare, emetteva un suono prolungato, e passava sempre molto tempo prima che qualcuno venisse ad aprire. Ogni volta Frédéric veniva preso da una specie di angoscia, da una paura imprecisata.

Poi sentiva sbattere sulla ghiaia le ciabatte della donna di servizio; oppure era la Signora Arnoux in persona a venirgli incontro. Un giorno le capitò alle spalle mentre, inginocchiata ai bordi del prato, stava cercando le violette.

Era stata costretta, per via del suo carattere difficile, a mettere sua figlia in un convento. Il ragazzo passava i pomeriggi a scuola. Arnoux faceva lunghe colazioni al Palais-Royal insieme a Regimbart e con l'amico Compain. Non c'era nessuno che potesse importunarli all'improvviso. Era inteso che non dovessero possedersi. Questo accordo, garantendoli dal pericolo, favoriva le loro effusioni.

Lei gli parlava della sua vita di un tempo, a Chartres, nella casa di sua madre, dei suoi fervori religiosi verso i dodici anni, poi della passione ardente per la musica, quando, nella cameretta da cui si vedevano i bastioni, cantava fino a notte. Lui le raccontò delle sue malinconie di collegiale, e di come nel suo cielo risplendesse sempre un volto di donna, tanto che vederla era stato per lui riconoscerla.

I loro discorsi, di solito, si limitavano agli anni in cui si erano frequentati. Lui le ricordava particolari irrilevanti, come il colore del suo vestito in una certa circostanza, chi era venuto in un determinato giorno, quello che aveva detto in un'altra occasione; e lei, tutta meravigliata, rispondeva: "Si, mi ricordo!"

I loro gusti, i loro giudizi, erano identici. Spesso quello che ascoltava, esclamava:

"Anch'io!"

E l'altro a sua volta ripeteva:

"Anch'io!"

Erano poi lagnanze senza fine verso la Provvidenza

"Il Cielo non l'ha voluto. Se ci fossimo incontrati prima..."

"Fossi nata un po' più tardi!" sospirava lei

"No, io un po' prima!"

E si immaginavano una vita fatta d'amore, tanto ricca e piena da colmare qualunque solitudine, superiore a ogni gioia, al di là di tutte le miserie, in cui le ore sarebbero scivolate via in una continua effusione di se stessi: una vita che avrebbe avuto lo splendore e l'altezza di un palpitare di stelle.