Quel bambino, di nome Ulysses Macauley, un giorno se ne stava a guardare il buco della talpa nel giardino dietro casa in Santa Clara Avenue a Ithaca, California. La talpa ammucchiava terra fuori dalla nuova tana e spiava il bambino, un estraneo per lei, anche se non un nemico vero e proprio. Prima che l’incantesimo svanisse, uno degli uccelli di Ithaca era volato verso il vecchio noce, nel boschetto, e dopo essersi posato su un ramo si era messo a a far baccano, a modo suo, spostando l’attenzione del bambino dalla terra all’albero. Un treno merci, la cosa più notevole, sbuffava e sferragliava in lontananza. Il bambino rimase ad ascoltare, sentiva la terra tremare sotto di lui per il movimento del treno. Poi si era messo a correre, sempre più svelto: più veloce di chiunque altro al mondo anzi, ne era convinto.
Raggiunto l’incrocio fece appena in tempo a vedere il treno tutto intero che passava, dalla locomotiva all’ultima carrozza. Fece un saluto al macchinista, ma il macchinista non rispose. Salutò altri cinque tizi, sul treno, e non uno di loro gli rispose. Avrebbero potuto ricambiarlo, ma non lo degnarono nemmeno di un cenno. Alla fine apparve un nero che si sporgeva sul fianco di un carro merci. In mezzo al frastuono del treno, Ulysses sentì l’uomo che cantava:
Amore mio non piangere, oggi non pianger più
Un canto noi cantiamo per la casa del Kentucky
Cantiam la vecchia casa, lontana, laggiù
Ulysses provò a salutare anche lui, e a quel punto accade un fatto inatteso e sorprendente. Quell’uomo, nero, diverso da tutti gli altri, rispose al saluto di Ulysses: «Toorno a caasaa, proprio a caasaa mia!»
Il bambino e il nero continuarono a mandarsi saluti, finché il treno non fu del tutto fuori vista. Poi Ulysses si guardò intorno. Tutto gli appariva strano, affascinante e senza logica. Era il suo mondo. Strano, pieno di erbacce e spazzatura, ma bello. Un vecchio con una balla sulle spalle si stava avvicinando lungo la ferrovia. Ulysses salutò anche lui, ma l’uomo era troppo vecchio e troppo stanco per dare confidenza a un ragazzino. Si limitò a lanciargli un’occhiata come se tutti e due fossero già morti e sepolti. Il bimbo girò su se stesso e si avviò lentamente verso casa. Incamminandosi, sentiva ancora l’eco del treno, del nero che cantava, l’eco delle sue parole giocose: «Toorno a caasaa, proprio a caasaa mia!» Poi si riscosse, e vicino a un nespolo di mise a prendere a calci i frutti marci e giallastri. Fece quel suo sorriso alla Macauley – quel sorriso gentile, saggio, un po’ enigmatico che dava il buongiorno a tutto.
Quando svoltò l’angolo e vide casa Macauley, Ulysses cominciò a saltellare, battendo i piedi in volo. Questo lo fece inciampare e poi cadere, ma un istante dopo era di nuovo in marcia.
Sua madre era in cortile, gettava becchime ai polli. Aveva visto il figlio correre, saltellare, inciampare e volare per terra. Lui era arrivato tranquillo e sicuro, buttando un occhio al cesto delle uova di gallina accanto a lei. Si fermò un istante, poi prese un uovo e lo porse a sua madre con cura estrema. Voleva esprimerle qualcosa che un adulto non saprebbe immaginare e un bambino non saprebbe descrivere.