Naturalmente non potei fare a meno di fissare nella mente il nome di Henry Morgan: era uno di quei nomi particolari che la memoria ha una certa predisposizione a ricordare e c'è in effetti da chiedersi se in realtà non mi fossi preso particolarmente a cuore, fin dalla prima sera anche l'uomo che lo portava. E non credo di essere stato l'unico.
Qualche giorno più tardi ero di nuovo giù al Club Europa – di sera mi annoiavo parecchio e non restavo volentieri chiuso nel mio appartamento svaligiato – per far passare il tempo e cacciare la depressione a forza di pugni contro un sacco.
L'uomo di nome Henry Morgan arrivò più o meno contemporaneamente e salutò Willis e «le ragazze». Nello sguardo che scambiò con il boss colsi subito quel rapporto padre-figlio che Willis aveva solo con un ristrettissimo numero di eletti in cui credeva, su cui puntava e per cui avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Questo Henry Morgan era dunque stato assente per un sacco di anni – o semplicemente, non aveva «bazzicato», come diceva Willis – perché i pugili vanno e vengono e Willis aveva capito da un pezzo che quello sarebbe andato e venuto a suo piacimento.
Mi misi a saltare la corda, che purtroppo è l'elemento che padroneggio meglio di tutto il programma. Anche Henry Morgan si stava scalando, e dopo un po' ci ritrovammo a sgambettare in una sorta di duello, con braccia incrociate e doppi giri, a un ritmo semplicemente forsennato.
Era già tardi, e dopo un'ora eravamo rimasti solo noi, a parte Willis, naturalmente, seduto nell'ufficio dietro le porte in vetro. Stava cercando di convincere gli organizzatori di un galà imminente a iscrivere un paio dei suoi ragazzi.
«Hai l'aria un tantino depressa, pischello» disse il tizio di nome Morgan.
«Infatti lo sono» risposi.
«Evidentemente non sono solo i governi ad andare in crisi, in questa parte dell'anno» commentò lui.
«Io non ho niente contro la stagione in sé» ribattei.
Il tizio di nome Henry Morgan salì sulla bilancia e controllò l'ago, borbottando qualcosa a proposito di un leggero sovrappeso. Una volta che si fu infilato un paio di pantaloni marroni, una camicia a righine sottili, un pullover bordeaux e una giacca di tweed pied-de-poule, si avvicinò allo specchio per farsi quel complicato nodo Windsor alla cravatta. Si pettinò con cura e guardò a lungo la propria immagine riflessa. Era l'immagine del perfetto gentiluomo, enigmaticamente anacronistico: capelli piuttosto corti con la riga da una parte, mento pronunciato, spalle diritte e un corpo che appariva solido e agile allo stesso tempo. Cercai di stabilire la sua età, ma mi risultò difficile. Era un uomo adulto con un'aria da ragazzino. Ricordava vagamente Gentleman Jim Corbett, che stava appeso alla porta in vetro dell'ufficio di Willis. Oppure Gene Tunney.
Quando ebbe smesso di rimirare la propria facciata si mise a osservare me, seduto a sbuffare sulla panca. Evidentemente quello che vide lo colpì, perché sollevò le sopracciglia ed esclamò:
«Cavoli, come ho fatto a non accorgermene prima!» Dopodiché tacque e riprese a scrutarmi.
«Di che cosa?» chiesi «Somigli maledettamente a mio fratello Leo. Avrei proprio bisogno di te»
«Leo Morgan è tuo fratello?» domandai.
«Il poeta?»
Henry Morgan annuì in silenzio.
«Pensavo fosse uno pseudonimo».
«Vuoi una parte in un film?» mi chiese di punto in bianco.
«Basta che frutti un po' di soldi» risposi.
«Guarda che dico sul serio. Vuoi una parte in un film?»
«Come funzionerebbe la cosa?» chiesi io.
«Vestiti che usciamo e ci beviamo sopra una birra, sulla cosa» rispose. «Cavolo, ma come ho fatto a non accorgermene subito?»
M'infilai i vestiti in un baleno, mentre Henry Morgan tornava a rimirarsi allo specchio.
«Ti toccherà prestarmi i soldi per una birretta» disse.
«Me lo sentivo». L'uomo di nome Henry Morgan sbottò in una risata e mi porse la mano.
«A proposito, mi chiamo Henry Morgan».
«Klas Östergren» dissi. «Piacere di conoscerti».
«Questo non lo sai ancora» ribatté lui, e rise di nuovo.